1, 100, 1000 SILENZI

… D’improvviso la casa si era fatta muta e lei non avrebbe saputo dire quando il silenzio aveva instaurato il suo regno. Quando avevano smesso di intrattenere conversazioni intelligenti, divertenti o anche soltanto innocue lei e suo marito? Si era accorta di punto in bianco che le cose non erano più come un tempo, ma non riusciva a ricordare se le parole si fossero spente lentamente oppure se fossero sparite in maniera brusca. La casa, muta, senza più voce, non era più il dolce rifugio dagli attacchi del mondo, ma era divenuta quasi un’entità ostile e minacciosa, che le rimproverava attimo dopo attimo di non aver saputo fare di meglio, di aver lasciato andare tutto a rotoli. Quel silenzio fatto di recriminazioni e accuse diventava ogni giorno più rumoroso e intollerabile…

… Lei parlava, parlava. Chiacchierava in continuazione. Di tutto e di nulla. Parlava e non si fermava. Non faceva pause, non faceva domande, non ascoltava. Tutto il giorno era un continuo cicalare senza sostanza che gli stava erodendo la pazienza. Sapeva che era tutt’altro che stupida o superficiale. Sapeva anche che non parlava così a “macchinetta” con tutti. Cosa la disturbava tanto nel silenzio, nell’assaporare momenti di quiete condivisa, di complicità di gesti? Cosa temeva così tanto da dover mascherare con un profluvio di parole senza importanza? Di cosa realmente avrebbe voluto parlare? 

Il silenzio è da sempre uno degli aspetti più problematici della comunicazione umana, in tutti i contesti. Rimane accigliata e in silenzio la maestra davanti al compito mediocre di uno studente modello (“da te proprio non me lo aspettavo!”); sceglie il silenzio e scuote la testa con un sospiro la madre davanti all’ennesima marachella del vivace figlioletto (“non ce la fai proprio a comportarti bene come tutti gli altri bambini, eh?”); opta per il silenzio e un’occhiata accusatoria il datore di lavoro davanti all’errore del dipendente distratto (“Se non ci fossi io qui andrebbe tutto a catafascio!”); serra le labbra e si trincera dietro al silenzio la moglie amareggiata (“questo trattamento mi merito dopo tutti questi anni?”); resta in silenzio e alza gli occhi al cielo il marito esasperato (“ancora con questa storia? Ma non finirà proprio mai?); restano in un silenzio imbarazzato abbassando lo sguardo due conoscenti poco spigliati (“di cosa parlare? Non vorrei sbagliare argomento” / “Non mi sembra in vena di chiacchiere, meglio stare zitti!”). Gli esempi potrebbero essere infiniti. Diciamocelo: spesso il silenzio è la via più breve per evitare il confronto, la discussione, la lite, le spiegazioni, le giustificazioni, ma anche il chiarimento e l’espressione di stati d’animo profondi o di emozioni perturbanti. È anche un modo per “scaricare” senza tante cerimonie e senza sensi di colpa la responsabilità della ripresa della comunicazione sull’altro; è un po’ come se dicessimo: “Vuoi parlare? Fallo tu! Il mio silenzio ti ha già detto tutto”. Qualche volta chi rimane in silenzio, infatti, ha anche la pretesa che l’altro legga esattamente tra le righe quella che è una richiesta non formulata a parole: delle scuse, una spiegazione ecc.

Eppure, il silenzio incute anche timore, ci getta in imbarazzo nelle situazioni sociali in cui non ci sentiamo particolarmente competenti o disinvolti: tutto meglio di quell’agghiacciante silenzio che cala all’improvviso come un sipario dopo aver esaurito i più comuni e “innocui” argomenti di conversazione! E allora che si fa? Meglio chiacchierare a ruota libera, anche se a vanvera, saltando di palo in frasca e sperando che qualcun altro ci venga in aiuto, ci getti una zattera di salvataggio nell’oceano dell’imbarazzo! Le chiacchiere vuote, quindi, come il silenzio sono un modo per “fuggire” da una comunicazione autentica e genuina. Come riuscire a parlare davvero con chi si ama e si teme di ferire o da cui abbiamo paura di essere offesi? Come sopportare il silenzio che cala tra persone che ancora si conoscono poco e che non vogliamo inavvertitamente urtare nella loro suscettibilità?

La comunicazione è un’arte difficile, che richiede impegno, dedizione e voglia di mettersi in gioco nelle relazioni interpersonali, di qualsiasi livello esse siano. Ma da dove partire? Dall’ascolto, prima di se stessi e poi dell’altro. Cosa proviamo? Cosa vogliamo realmente comunicare? Senza prima aver risposto a queste domande difficilmente potremo affrontare un dialogo costruttivo. Cerchiamo anche di calarci nei panni del nostro interlocutore: come può interpretare i nostri bisogni e i nostri desideri se non impariamo e esprimerli con sufficiente chiarezza?

E per quanto riguarda il silenzio? È davvero soltanto fonte di timore e di imbarazzo o strumento di fuga in caso di discordia e conflitto? No, il silenzio tra due o più persone in sintonia può essere un modo per condividere emozioni e sentimenti senza la necessità di accedere al linguaggio, che, per sua natura, introduce sempre un elemento di ordine e razionalizzazione. Può essere un modo non mediato dalla ragione per condividere l’attimo, per sincronizzarsi in uno stato di benessere comune (pensiamo ai concerti, quando migliaia di persone prima delle note di inizio, condividono l’inesprimibile emozione di essere un unicum in attesa della gioia della musica; pensiamo alle partite, quando la folla in trepidante attesa aspetta il calcio d’inizio). 

Parole e silenzi hanno un peso? Il modo in cui utilizziamo il silenzio e le parole hanno un forte peso in quanto comunichiamo, ma anche in quanto mostriamo di noi stessi. E’ possibile divenire comunicatori più efficaci e, soprattutto, più autentici nei confronti di se stessi e degli altri? Certamente, tramite percorsi individuali, di coppia o familiari con un professionista del benessere psicologico.

Per saperne di più:

Polla-Mattiot, N. (2019). Esplorare il silenzio. Enrico Damiani Editore e Associati.

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