Il Disturbo di Personalità Dipendente
Il Disturbo di Personalità Dipendente o DPD è una condizione psicologica appartenente al cluster C dei disturbi di personalità del DSM (il manuale diagnostico dei disturbi mentali) caratterizzato da una pervasiva e incontrollabile necessità di essere accuditi, che induce l’individuo ad agire comportamenti sottomessi e adesivi e che si manifesta con una significativa paura dell’abbandono da parte degli altri significativi. Le persone con questo disturbo manifestano una profonda difficoltà a prendere decisioni in autonomia e tendono ad affidarsi eccessivamente agli altri, anche in contesti in cui sarebbe auspicabile un adeguato livello di indipendenza personale.
Vediamo alcuni esempi di casi clinici di cui, per privacy, non riportiamo i nomi reali:
Giulia, 32 anni, insegnante di scuola primaria. Giulia, timida e vestita molto sobriamente, si presenta in terapia dopo la fine di una relazione amorosa durata sette anni; racconta di essersi sempre adattata completamente ai desideri del partner, cambiando gusti, amicizie e persino opinioni per evitare conflitti con lui e quindi per evitare la sofferenza del dissidio e la paura di “essere abbandonata”. Dopo la rottura – voluta dal partner – dice di sentirsi “vuota, inutile, incapace di fare qualsiasi cosa da sola”. In terapia, chiede ripetutamente se stia facendo la cosa giusta in ogni piccolo aspetto della sua vita quotidiana, manifestando così una profonda insicurezza decisionale e un costante bisogno di conferme esterne.
Nel caso di Marco, 45 anni, impiegato amministrativo, la dipendenza si manifesta, invece, soprattutto nell’ambito lavorativo. Marco, pur essendo molto serio nel suo lavoro, non riesce a prendere iniziative se non riceve conferme continue dai colleghi o dai suoi superiori: ha rifiutato anche buone offerte di promozione per il timore di non essere all’altezza del ruolo senza una guida che lo segue. In terapia, emerge che Marco, lungo il suo percorso di vita, ha sempre avuto figure forti e determinate accanto a sé — prima la madre, poi la moglie — dalle quali ha sviluppato una forma di dipendenza emotiva, ma anche pratica, quasi completa: “loro sanno sempre cos’è giusto fare”.
Secondo le teorie psicodinamiche, il DPD può avere origine da esperienze infantili di iperprotezione o, al contrario, da genitori controllanti e invalidanti, che non favoriscono l’autonomia del bambino. Anche fattori temperamentali e genetici sembrano contribuire allo sviluppo del disturbo (Bornstein, 1992), soprattutto in combinazione con un ambiente che inibisce l’esplorazione delle proprie capacità e risorse. Il DPD si manifesta solitamente in età adulta, ma alcuni tratti di personalità predisponenti sono riconoscibili già nell’adolescenza. Il DSM-5 (APA, 2013) elenca otto criteri diagnostici per il DPD, tra cui la difficoltà a prendere decisioni quotidiane senza rassicurazioni, la riluttanza a esprimere il disaccordo, la tendenza a iniziare nuove attività solo se guidati da altri, e la paura irrealistica di essere lasciati soli. La diagnosi richiede la presenza di almeno cinque di questi criteri e una compromissione significativa del funzionamento sociale o lavorativo dell’individuo.
Risulta, inoltre, importante distinguere il DPD da altri disturbi, come il Disturbo Evitante di Personalità, che si caratterizza per il timore del giudizio negativo, oppure da tratti dipendenti legati a condizioni transitorie come un episodio depressivo, piuttosto che a tratti stabili di personalità.
Anche se al momento la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è ritenuto uno degli approcci più efficaci nel trattamento del DPD perché lavora specificamente sul potenziamento delle abilità decisionali, sulla costruzione di un senso stabile di sé, e sulla gestione dell’ansia da separazione (Beck et al., 2004), l’approccio sistemico-relazionale, d’altra parte, permette di lavorare, in un’ottica di complessità, sulle dinamiche relazionali e familiari che sono spesso la causa dell’insorgenza e del mantenimento di tale disturbo. Tramite un percorso psicoterapico è possibile favorire l’autonomia e l’indipendenza modificando anche i ruoli disfunzionali all’interno del sistema. Se il disturbo è accompagnato da forte ansia o depressione clinica può essere necessario anche un trattamento farmacologico. Riprendendo i casi clinici precedenti, nel trattamento di Giulia è stato centrale il lavoro sull’autoaffermazione e sulla ricostruzione di una rete sociale autonoma. Per Marco, invece, si è rivelato utile un training per lo sviluppo dell’assertività.
Il Disturbo di Personalità Dipendente è spesso misconosciuto o sottovalutato, anche perché molte delle sue manifestazioni (gentilezza, cooperatività, bisogno di vicinanza) sono socialmente accettate o persino valorizzate. Tuttavia, quando questi tratti diventano rigidi, pervasivi e fonte di sofferenza personale, è fondamentale riconoscerli come parte di un disturbo che può e deve essere trattato. L’obiettivo terapeutico non è eliminare il bisogno degli altri — condizione naturale della natura umana — ma promuovere relazioni sane, paritarie e basate sulla libertà e sulla reciproca scelta, non sulla paura dell’abbandono.
Riferimenti bibliografici:
American Psychiatric Association. (2013). Diagnostic and statistical manual of mental disorders (5th ed.). Arlington, VA: American Psychiatric Publishing.
Beck, A.T., Freeman, A., Davis, D.D., & Associates. (2004). Cognitive therapy of personality disorders (2nd ed.). New York, NY: Guilford Press.
Bornstein, R.F. (1992). The Dependent personality: Developmental, social, and clinical perspectives. Psychological Bulletin, 112(1), 3–23. https://doi.org/10.1037/0033-2909.112.1.3
Bornstein, R.F. (1993). The Dependent personality. New York, Guilford Press.
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