Il paradosso dell’esperienza e la felicità 

La ragazza ripensava con nostalgia ai bei momenti passati la sera prima con il suo compagno: la notte stellata, il fruscio delle onde del mare che s’infrangono sugli scogli, la sabbia, il tepore dei loro corpi vicini e allacciati… perché non si era goduta a pieno quegli istanti? Perché rimpiangerli già poche ore dopo averli vissuti? Eppure… le sembrava di godersi il presente in quel momento… poi aveva iniziato a piovere e la magia si era interrotta. D’un tratto, il mondo era tornato prosaico e la vita era tornata quella di sempre.

A tutti noi è capitato e continua a capitare qualcosa di molto simile. Cosa accade davvero quando viviamo un’esperienza? Che cosa riusciamo a trattenere di essa? L’esperienza e il nostro ricordo di essa sono la stessa cosa?

Daniel Kahneman, in una bella e divertente lezione in video, inizia proprio affrontando il tema della felicità e cercando di fare chiarezza sul termine stesso, esplicando quali sono le “trappole cognitive” in cui cadiamo tutte le volte che parliamo di essa. La prima “trappola cognitiva” con cui si deve fare i conti è quella della complessità del termine stesso: che cosa significa, infatti, essere felici? È evidente che non per tutti significa la stessa cosa e che applichiamo la parola “felicità” ai più svariati ambiti, rendendo, di fatto, impossibile darne una definizione precisa, univoca e universale. 

La seconda “trappola cognitiva” presentata da Kahneman è più sottile e tocca sia l’ambito dell’esperienza che quello della memoria, infatti, “essere felici nella vita” non ha lo stesso significato di “essere felici riguardo alla propria vita”, se ci riflettiamo bene. La prima espressione pertiene alla sfera esperienziale, mentre la seconda pertiene a quella dei ricordi e, sebbene entrambe siano legate al concetto di felicità, si riferiscono a due aspetti diversi di questo concetto. Nel primo caso si tratta del vissuto esperienziale degli episodi in cui si prova felicità; nel secondo, invece, del ricordo, dell’idea che abbiamo della nostra vita relativamente all’essere felici.

La terza “trappola cognitiva” è direttamente collegata alla precedente, poiché si parla di distorsione in relazione a quanto ricordiamo di un’esperienza, ed è questa che ci interessa maggiormente. In qualche modo, infatti, i momenti finali di un’esperienza dominano nel ricordo che avremo di essa; perciò, se gli ultimi momenti di un episodio o di un’esperienza vissuta sono negativi, essi influenzeranno il ricordo dell’episodio nel suo complesso, caricandolo nella sua totalità di un’affettività negativa anche se i momenti precedenti sono stati soddisfacenti o addirittura appaganti. Il ricordo viene, quindi, distorto sulla base dell’ultima impressione ricevuta. Lo psicologo ci fa notare che ciò che si rovina realmente non è l’esperienza in sé, ma il ricordo di essa. Il problema, ed è questo il nocciolo fondamentale, è che ciò che ci resta di un’esperienza vissuta è soltanto il ricordo che ne abbiamo. Noi siamo i nostri ricordi: la nostra memoria sta alla base della nostra identità.

Ma perché accade questo fenomeno così pervasivo da condizionare tutto ciò che ricordiamo di un’esperienza vissuta? Rifacendosi alla Teoria della Specificità della codifica (Tulving & Thomson, 1973), si può ipotizzare in prima istanza che la variabile emotiva possa incidere profondamente nel ricordo di un’esperienza, poiché lo stato d’animo dell’individuo durante un episodio può influenzare il livello di profondità della codifica dell’informazione. Facciamo un esempio: se sto ascoltando una bellissima sinfonia con un ottimo stereo e sono di buonumore, in un ambiente piacevole rilassato, è altamente probabile che mi stia godendo l’esperienza, ma se all’improvviso le condizioni ambientali cambiano e la stanza si affolla di persone che parlano ad alta voce, ecco che l’esperienza diventa sgradevole e irritante. In altre parole, l’emozione spiacevole e inaspettata provata durante l’ascolto ha un forte impatto sull’individuo, che finirà per ricordare come più salienti quegli istanti piuttosto che i minuti precedenti in cui aveva goduto con serenità dell’ascolto della musica. La totalità dell’esperienza si modifica completamente nella memoria, quindi. In seconda istanza, si può invocare l’effetto recency (Ebbinghaus, 1885) per il quale, a prescindere dalla tonalità affettiva dell’esperienza, si tende a ricordare maggiormente ciò che è più recente. In ogni caso, ciò che emerge con forza è che la memoria non è affatto quello specchio fedele dell’esperienza vissuta che saremmo portati a credere, ma è soggetta a distorsioni cognitive, all’influenza del nostro stato d’animo e a fattori quali l’interferenza.

Ma se noi siamo i nostri ricordi e se la memoria è ricostruttiva, come coniugare il vissuto esperienziale con quello che ne resta nella nostra mente? È d’aiuto una buona narrazione autobiografica che fornisca senso e significato ad ogni episodio importante, tessendo trame coerenti tra ognuno di essi, di fatto rendendo coerente e dotata di significato la propria esistenza. Non sempre si tratta di un processo semplice: traumi, lutti ed eventi inaspettati possono apportare grandi squarci alla narrazione personale, lasciando l’individuo confuso e sofferente. In questo caso è opportuno ricorrere all’aiuto di un professionista; la terapia sistemico-familiare è indicata anche per l’individuo singolo, offrendo l’opportunità di inquadrare in ottica sistemica i propri vissuti, le proprie esperienze e le proprie emozioni.

Sitografia:

Kahneman, D.

https://www.ted.com/talks/daniel_kahneman_the_riddle_of_experience_vs_memory?language=it 

Bibliografia:

Ebbinghaus H., Über das Gedaechtnis. Duncker & Humbolt, Leipzig, Germany, (1885). Engl. Trad.: Ruger HA, Bussenius CE. Memory: A Contribution to Experimental Psychology. (1913): Teachers College, Columbia University, New York.

Tulving, E. & Thomson, D.M., Encoding Specificity and Retrieval Processes in Episodic Memory, Psychological Review (1973), Vol. 8 (5): 352-373.

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